Finalmente arrivano buone notizie dell’Egitto, il Tribunale di Mansura ha liberato Patrick Zaki ma non l’ha ancora assolto: i dettagli
Dopo le tantissimi proteste e la presentazione di una petizione per la liberazione di Patrick Zaki, il giovane verrà finalmente scarcerato, ma non assolto. Proprio oggi si è tenuta l’udienza del processo a carico del ricercatore dell’Università di Bologna incarcerato in Egitto dal 7 febbraio 2020, con l’accusa di diffusione di notizie false, incitamento alla protesta e istigazione alla violenza e ai crimini terroristici. Per tali motivi, il giovane Zaki rischia fino a 5 anni di carcere. Hoda Nasrallah, legale del ricercatore, aveva chiesto l’acquisizione di ulteriori atti per poter provare l’illegalità dell’arresto del suo assistito e la correttezza dell’articolo sui copti alla base del processo.
Patrick George Zaki è uno studente dell’Università di Bologna e attivista egiziano nato a Mansura, in Egitto, da genitori di religione cristiana ortodossa copta. In occasione delle elezioni presidenziali egiziane del 2018, ha partecipato alla campagna elettorale di Khaled Ali. Si tratta di un avvocato e attivista politico impegnato nella difesa dei diritti umani che che successivamente ritirò la candidatura denunciando le tensioni nel Paese. Zaki ha anche preso parte anche all’associazione per la difesa dei diritti umani Egyptian Initiative for Personal Rights, con sede al Cairo.
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Prima che l’udienza iniziasse, il ricercatore dell’Università di Bologna, dietro la sbarra degli imputati ha risposto ad un diplomatico che gli ha domandato come stesse. “Sto bene, grazie all’Italia“, ha affermato il giovane. Perciò, Zaki ha ringraziato l’Italia e l’Ambasciata per tutto quello che stanno facendo per lui.
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In aula presenziavano anche rappresentanti canadesi, statunitensi e spagnoli, con una legale della delegazione dell’Unione europea e i genitori di Patrick Zaki, la madre Hela e il padre George. La prossima udienza, secondo quanto riferito dalla testata egiziana MadaMasr, si terrà il 1 febbraio. “La speranza è che un giudice riconosca, dopo quasi due anni, l’infondatezza dell’accusa di diffusione di notizie false“, ha affermato Amnesty International.
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