Oggi sarebbe stata una e-mail ma al tempo si usava il telegrafo: «L’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich ha inviato il capitano Dannecker per catturare tutti gli ebrei in un’azione lampo e deportarli in Germania. A causa dell’atteggiamento della città di Napoli e delle conseguenti, incerte condizioni operative, l’operazione non ha potuto essere realizzata. I preparativi per l’azione a Roma sono stati invece conclusi». Così Herbert Kappler il 6 Ottobre del 1943 comunico il fallimento dell’azione di deportazione degli ebrei napoletani al suo superiore Wolff. Hitler aveva ordinato di ridurre “in fango e in cenere” la città di Napoli e di deportare tutti gli ebrei residenti nella città partenopea.
La reazione di Napoli fu rabbiosa, la città era stremata dai colpi subiti dai bombardamenti che avevano dilaniato ogni cosa nei mesi precedenti e non accettò l’ennesimo sopruso.
Un’orda di scugnizzi e gente comune, armata di fame e giustizia, scacciò dalla città il regime che aveva fatto tremare il mondo intero salvando la vita ai circa mille ebrei napoletani residenti.
Anche la meravigliosa Piazza Plebiscito, simbolo della città, era ridotta a stendardo del regime tappezzata di svastiche e riempita di gerarchi. Il tentativo di indottrinare una città passionale ed aperta come Napoli è miseramente fallito e le immagini della stessa piazza oggi fanno da meraviglioso contraltare a ciò che è stato e non dev’essere più.
Piazza Plebiscito, con i suoi colori, è simbolo di una Napoli che si impone nel paese come protagonista per l’ importante partita per l’uguaglianza dei diritti.
Come ha scritto Vito Mancuso, «non possiamo fare nulla per i morti, se non coltivare l’arte della memoria. Noi possiamo ricordare, oppure — ed è l’atroce crimine del negazionismo — possiamo negare che quei morti siano esistiti».
Ma qualcos’altro oggi per ricordare al meglio le vittime di un genocidio cieco, senza colore, lo possiamo fare: essere l’esempio di un mondo che migliora, garantisce più diritti e tutela qualsiasi tipo di minoranza.