La prima cosa che si percepisce, entrando in teatro e ammirando la scarna scena elisabettiana, è che questa sarà un’opera di sicuro diversa: la scritta led che campeggia sullo sfondo recita “now”, “ora”, nel presente. Infatti il Riccardo III di Sam Mendes è una trasposizione odierna della drammaticità shakespeariana, così lontana nel tempo, ma sempre così attuale anche senza troppo manierismo immaginario.
Riccardo III è il dittatore che un po’ tutti abbiamo imparato a conoscere dalle pagine dei giornali: guerrafondaio, arrabbiato col mondo (forse anche in maniera un po’ troppo eccessiva), che crea deserto intorno a sè e che è disposto a tutto pur di realizzare la sua ascesa al trono. Kevin Spacey, protagonista dello spettacolo, accentua volutamente le caratteristiche negative di questo personaggio, con un tono di voce che non è quasi mai tranquillo, ma sempre sardonico, con un comportamento spesso al limite di ogni umano buon senso, da quando circuisce la giovane vedova Lady Anne, mentre il feretro del suo defunto marito ancora sanguina innanzi a loro, fino ad arrivare alla più macabra delle scene, quando col bastone infilza più volte la testa mozzata del suo ennesimo nemico racchiusa in una scatola.
Spacey si contorce, urla, dichiara morte e guerra a tutti, ed anche nella scena del quinto atto, dopo l’apparizione delle vittime degli intrighi di Riccardo, la sua è una confessione sì umana, ma volutamente confidata ancora una volta al pubblico, già “colpevole” quanto lui nei suoi misfatti, resi complici da un continuo scambio di idee e progetti durante tutto lo spettacolo.
Abiti contemporanei, telecomandi, video, telefoni e scene magrittiane di bombette e nuvole in movimento sono solo alcuni degli elementi contemporanei di questo dramma, una visione attuale di un antico progetto, che si realizza in modo perfetto grazie ad un cast d’eccezione anglo – americano, dove non si sconta nulla in drammaticità, dove la sequela di trame subdole e sanguinarie lascia spazio ad una morte che sembra essere quasi un assopimento, mentre la detronizzata Margherita segna inevitabile le x sulle porte dell’oblio terreno, le stesse porte dalle quali le anime defunte dei personaggi prenderanno la via dell’aldilà.
E sono proprio le porte uno dei punti forse cruciali dell’intero dramma: è da qui, infatti, che gli attori prendono scena, dalle porte comincia la vita e la morte di ogni personaggio, ma quando il proscenio si dipana in maniera prospettica, il fondo incarna il volto del nuovo re, Riccardo III, colui che, nella sua ascesa verso l’inferno della sua imperiosità negativa, travolge tutto e tutti e conduce ad un inevitabile destino che si tradurrà materialmente in un nuovo sfondo (o)scuro.
Suono martoriante di tamburi celebra, scandisce e quasi denigra la seconda parte, dove lo stesso Spacey dà il meglio si sè dopo un inizio un po’ troppo meccanico. Momenti di pathos sanguinario, di toghe bardate d’ermellino e battaglie cruciali, dove lo sconfitto Riccardo urla la sua più celebre frase “Il mio regno per un cavallo!”, ma nessuno soccorre in suo aiuto. Come sempre, chi semina vento raccoglie tempesta e questa volta il re diabolico diventa un uomo normale, un normale tiranno condannato al suo destino di morte ed inevitabilmente appeso a testa in giù.
Uno spettacolo perfetto, soprattutto nella seconda parte e al quale si “perdona” anche la differenza sonora fra inglese europeo e d’oltreoceano, e dove magistralmente viene ripresa una delle opere giovanili di Shakespeare e ne si fa un successo indiscutibile, un innesto fra antico e moderno che colpisce ma nulla toglie all’autorevolezza del passato, un successo che viene premiato da un pubblico entusiasta che concede ben 7 minuti di applausi scroscianti e una sentita standing ovation.