Emozionante, divertente, dissacrante: questo il Mistero Buffo di Dario Fo nell’umile versione interpretata da Paolo Rossi. Un monito a pensare, a riflettere, in maniera però sarcastica e geniale come solo un giullare può raccontare, raccogliendo il malumore del popolo e portandolo sotto spoglie diverse ai potenti, un po’ come accadeva un tempo, quando il teatro era vittima di censura e tutto si trasfigurava nell’immagine della volpe e dell’agnello. Scena essenziale, quasi scarna, con due elementi fondamentali di raccordo: un palcoscenico tratto dai fasti teatrali della Commedia dell’Arte e un manichino abbigliato in modo semplice, da profugo in arrivo a Lampedusa col gommone.
Se Gesù Cristo tornasse oggi chi sarebbe? Questo il train d’union dell’intero spettacolo, il raccordo fra la vita di Gesù e i giorni nostri, la sofferenza di un popolo che migra altrove in cerca di libertà e il potere abusato in cui le istituzioni governative italiane sguazzano. Un confronto micidiale, un racconto fatto con il pubblico col quale lo stesso Rossi interagisce e disquisisce, senza belletti, senza risparmiarsi in battute e silenzi profondi, accompagnato soltanto dalla musica di Emanuele Dell’Aquila.
Il teatro è immedesimazione e catarsi di sè e della società per giungere a più alti livelli umani: questo l’intento, senza neanche troppe polemiche, al quale punta Paolo Rossi, allontanandosi in gran parte dell’opera del suo Maestro Dario Fo e proponendo un nuovo spettacolo decisamente superiore alla aspettative, dove non è il solito Pierino discolo del teatro italiano, ma il giullare della società, il mezzo attraverso il quale si esprimono le più o meno celate paure e negligenze dell’Italia di oggi, messa a ferro e fuoco da nuovi e più temibili barbari.
La rappresentazione di domenica non ha visto la presenza in scena di Lucia Valsini che, per motivi strettamente privati, non è potuta essere presente, ma Rossi non si è perso d’animo ed anzi ha organizzato addirittura un bis programmato a tavolino con gli stessi spettatori, realizzando una piccola pieces musicale di saluto.
Assolutamente intensa la scena in cui, fra una battuta e l’altra, il manichino-immigrato viene sciolto dalle manette ed inchiodato ad una pseudocroce sul palco: silenzio e luci basse e la stessa mano di Rossi a colpire più volte i polsi del manchino. Cambio di luci e la sagoma silenziosa viene issata in alto, sul palco del palco, mentre gli attori assistono mesti e raccolti alla storia che, inevitabilmente, si ripete fatale come un tempo sull’altare della quotidianità.