Chiudete gli occhi ed immaginate due giovani belli nella loro fresca giovinezza, indubbiamente innamorati, felici della loro relazione adultera che si consuma fra le mura del palazzo S. Severo.
E’ il 17 ottobre 1590 e loro sono Maria D’Avalos e Fabrizio Carafa. Ebbene, concentriamoci su Maria D’Avalos poiché è lei la protagonista del nostro articolo di oggi, ancora in viaggio fra le leggende napoletane.
Si dice che il fantasma della poverina si aggiri irrequieto nelle fredde notti buie poiché non trova pace.
Ma torniamo indietro nel tempo: Carlo Gesualdo, principe di Venosa è il legittimo consorte di Maria, donna splendida ed irrequieta e ne è estremamente geloso pur avendo un animo sensibile.
Com’è comprensibile non è disposto a dividerla con altri uomini; dunque è troppo orgoglioso per tollerare l’onta del tradimento e troppo innamorato per invocare la giustizia della legge.
A Napoli tutti conoscevano la maestria musicale di Carlo Gesualdo che passa ore a lavorare sui suoi spartiti per poter trasmettere in sinfonia la passione ardente che egli prova per la bellissima Maria, e, sempre a Napoli tutti erano a conoscenza della tresca tra la bella Maria e Fabrizio Carafa. La nobiltà sussurra, il popolo commenta, con divertita indulgenza, l’audacia dei clandestini amati.
Don Carlo per qualche tempo ignora (o fa finta d’ignorare) ciò di cui tutti parlano, compone malinconiche melodie e si strugge d’amore. Ma la passione tra i due giovani amanti cresce ogni giorno di più, e presto anche la prudenza viene messa da parte.
A quel punto un amico di Don Carlo decide che è il momento d’intervenire e lo informa di quanto accade alle sue spalle. Pazzo di dolore e di gelosia, l’uomo tenta ancora di non arrendersi alla dolorosa verità. Concede all’adorata moglie l’ultimo, delirante, atto di fiducia: il beneficio del dubbio.
Finge di partire per ritornare, a notte fonda, nella segreta speranza di trovare, sola e casta, la donna che ama ma spalancata l’uscio, ogni illusione si infrange miseramente contro l’immagine dei due amanti avvinti sul talamo. L’ira e la disperazione, troppo a lungo represse, impongono le loro crudeli ragioni.
Carlo Gesualdo si scaglia contro i due armato di pugnale e colpisce alla cieca fino ad ucciderli. Pazzo di dolore, sporco di sangue, cammina per ore lungo le vie del centro, piangendo disperato e fuggendo poi via. Nonostante la stanza venga chiusa e la casa abbandonata il vicinato afferma di udire ogni notte un grido alto e angoscioso e pare ancora che si aggiri, per l’oscurità delle vie circostanti e di aver visto in talune occasioni uno spettro bianco.
Nel 1889 crollò l’ala del palazzo (il palazzo dei Principi di Sansevero) dove avvenne il delitto e questo placò un poco lo spirito irrequieto. Da allora, nelle notti senza luna, l’ombra evanescente riappare muta. Si aggira silenziosa, dolente e il suo incidere spettrale sembra riecheggiare i versi ispirati al Tasso dalla sua tragica vicenda:
“Piangete o Grazie, e voi piangete Amori,
feri trofei di morte, e fere spoglie
di bella coppia cui n’invidia e toglie,
e negre pompe e tenebrosi orrori…
…la bella e irrequieta Maria. …
E Don Carlo Gesualdo?
Fu colpito da sofferenze e da perdite molto dolorose, come la morte dei due figli Alfonsino ed Emanuele. Dopo 17 anni di tormento e di dolore, si lasciò morire nel 1613. Il suo corpo
riposa a Napoli nella Chiesa del Gesù Nuovo.